PROSPETTIVA N
Ora dopo 19 anni, non so bene perché, mi sono trovato ad essere risospinto a San
Pietroburgo. Ho con me la piccola fotocamera. Piccola come un taccuino e una matita. Piccola e semplice, non mi piace che una macchina impegnativa abbia il ruolo d'una Svetlana e s'imponga sul mio vivere. Mi obblighi a tener conto della sua presenza e alla fine snaturi le mie giornate.
Sotto sotto riconosco che il fine della mia azione non è il prodotto, la fotografia.
Ciò che mi preme resta il bisogno di sempre. Esplorare il mistero del mio temporaneo esserci, insieme con tutti gli altri. E la fotocamera la uso come un medium che innesca il rapporto e lo fa speciale.
PERSPECTIVE N
Now after 19 years, not sure why, I found it to be driven back to Saint Petersburg. I also carry a small camera. Small as a notebook and a pencil. Small and simple, I do not like a heavy machine has the role of a Svetlana and imposes itself on my life. It forces me to care about its presence and after all distorts my days.
Deep down I recognize that the purpose of my action is not the product, the photograph.
What I want is the need of always. Exploring the mystery of my temporary be here, together with everyone else. And I use the camera as a medium that triggers the relationship and makes it special.
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5. Scendeva la prima delicata neve e le strade e i tetti di San Pietroburgo apparivano
scintillanti di pakrov, il manto della Madonna. Era l'ottobre del 1993. Svetlana mi
guidava di malavoglia verso i colossali edifici neoclassici, rischiando più volte di finire
sotto le poderose noncuranti Lada dei potenti di Stato.
Alloggiavo nel suo appartamento, dentro un oscuro palazzone sovietico. Levate le
scarpe e infilati i pantofoloni, ci siamo accordati sul compenso. Lei conosceva
discretamente l'italiano e abbiamo subito capito che non saremmo diventati amici.
In Russia stavano accadendo eventi storici, il paese di ghiaccio si stava frantumando.
Circolavano in tutto il mondo le foto di Eltsin che, salito su un carro armato, arringava
la folla contro i comunisti che tentavano un colpo di Stato per riprendere il potere.
Quattro anni prima era crollato il muro di Berlino e il comunismo era adesso
aborrito come l'inferno. Sul giornale affisso a un tabellone stradale si glorificava l'Italia
di Benito Mussolini. In Russia si presentavano inattese occasioni, ma la povera gente
era confusa perché venivano a mancare consolidate certezze.
Svetlana era ovviamente molto interessata ai miei pochi dollari e anche al mio
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6. collutorio dentale. La sera allungava le sue tozze gambe sulla seggiola e si godeva la
tetra televisione in bianconero.
Le mie notti non erano tranquille, custodivo il mio limitato peculio sotto il cuscino,
la videocamera accanto al letto. Le riprese del documentario su Giacomo Quarenghi,
l'architetto italiano al quale a fine '700 Caterina II aveva commissionato la
progettazione di grandiosi palazzi della nuova capitale, si erano improvvisamente
rallentate.
Le richieste al telefono di Svetlana non erano più efficaci, i permessi per poter
girare slittavano di giorno in giorno. Era evidente che la mia ospite temeva la
conclusione troppo rapida del mio lavoro e dei miei compensi. Prima di salire a bordo
di un motoscafo sulla Neva, l'ho vista complottare con il barcaiolo per lucrare
sottobanco sul prezzo del passaggio.
Io non avevo alternativa, non conoscevo nessuno in città. Le scoraggianti scritte in
cirillico mi impedivano di muovermi in autonomia. Di notte dalla finestra della mia
prigione fissavo con rabbia l'orribile cortile illuminato da un faro giallastro. Inondato
dal pensiero della stupidità umana.
Se Svetlana mi avesse apertamente esposto la sua situazione economica, non avrei
esitato a raddoppiare l'importo quotidiano dell'alloggio. Invece la reciproca diffidenza
aumentava e produsse una clamorosa rottura.
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7. Era presente Katia, una ragazza carina allieva d'italiano di Svetlana, che aveva
partecipato alle riprese. Non ha retto alla tensione, e si è presto dileguata. E così mi
sono trovato fuori dal palazzo con il trolley, il cavalletto e la videocamera, senza
sapere dove andare. Non esistevano computer e telefonini, e non conoscevo una
parola di russo.
In fondo alla strada mi apparve Katia. Più luminosa della sacra cintura della Vergine.
Non era vero che era fuggita. E non aveva perso tempo. Mi aveva già trovato una
nuova sistemazione a duecento metri da casa sua. Un hotel russo per cittadini russi.
All'esterno sembrava una sede statale di uffici, senza alcuna insegna. Il mio nuovo
alloggio era una suite con ampi finestroni e pagavo la metà di quanto davo a Svetlana.
Non rimpiangevo le deliziose bulochke dolci che una volta Svetlana mi ha offerto a
colazione, piuttosto con Katia trovavo fantastico il borsch di una trattoria sulla
Prospettiva Nevskij. Il giovane Igor ci trasferiva qua e là con la sua Opel probabilmente
alimentata a fantasia perché procedeva a balzelloni. Igor la mattina si presentava
all'appuntamento con le mani sporche di grasso, aveva dovuto ogni volta intervenire
sul motore.
La sera in casa di Katia si controllava il girato. Ero accolto dalla mamma con saluti
alla francese e un lieve educatissimo inchino. Katia le intimava di andare di là e
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8. chiudere la porta. Con il papà abbiamo cenato una volta sola, un interessante uomo di
cinema. Era regista e allora stava realizzando un documentario in 35 millimetri sui
nipotini di Puskin. Possedeva una stanza fuori casa, zeppa di libri. Katia me ne portava
alcuni alla mia suite, dove riprendevamo le illustrazioni utili al filmato su Quarenghi.
Dal finestrone appariva l'austera sagoma dello Smolny, edificio progettato
dall'architetto Rastrelli. E filtrava una luce perfetta per le riprese.
Un giorno d'improvviso nel silenzio della stanza si avvertiva un nuovo stupore di là
del vetro. Un impercettibile agitarsi nel cielo che si scuriva. E poi la tensione cedeva a
una profonda pace. Minuscole regolari cadevano le prime pelurie di neve. E poi fiocchi
candidi ci regalavano il rinnovato miracolo.
Ora dopo 19 anni, non so bene perché, mi sono trovato ad essere risospinto a San
Pietroburgo. Ho con me la piccola fotocamera. Piccola come un taccuino e una
matita. Piccola e semplice, non mi piace che una macchina impegnativa abbia il ruolo
d'una Svetlana e s'imponga sul mio vivere. Mi obblighi a tener conto della sua presenza
e alla fine snaturi le mie giornate. Sotto sotto riconosco che il fine della mia azione non
è il prodotto, la fotografia. Ciò che mi preme resta il bisogno di sempre. Esplorare il
mistero del mio temporaneo esserci, insieme con tutti gli altri. E la fotocamera la uso
come un medium che innesca il rapporto e lo fa speciale.
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9. Appoggiato al muretto, paziente attendo il momento. Il sole sta calando, sono le
dieci di sera, una qualunque notte bianca del mese di giugno. A frotte scompaiono nel
sottopassaggio lasciando dentro la fotocamera ombre cristallizzate. Ma lo scatto
avviene in ritardo sull'emozione, quella è perduta. Uno, due secondi e non c'è più.
Volata via, sciolta nell'insieme.
È imbarazzante fare fotografie. Come un tempo chiedere a una bella ragazza
sconosciuta se vuole ballare. Penoso accettare il rifiuto.
Scattare di nascosto fa sentire vili. Puntare la camera è violenza, non si può
negarlo. Come un intervento chirurgico non concordato. Non si asportano organi, ma
si fa uso di corpi. È naturale che provochi allarme in chi viene fotografato, come se si
frugasse nelle sue tasche.
Ma talvolta scende un angelo. E si sprigiona un imprevisto complice sorriso. È la
pace di un fiducioso eden, dove tutto sembra raggiunto per sempre e non è più
possibile levare niente a nessuno. Vivere è aprire le braccia, accogliere e stringere a
sé, consolare e sperare insieme. Chissà se è per questo che si fanno figli. I figli quando
sono piccoli non si sottraggono mai agli abbracci.
L'uomo irsuto dallo sguardo dolce vende giornali, anche giornali comunisti. Parla
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solidarietà.
Alla vecchia triste che vende le sue misere cose do una manciata di monete. Ma mi
sembra un gesto volgare, accorcio la distanza con una lieve carezza sul suo viso
indurito. Mi sento nobile, ma lei non mi sorride, lo sguardo di pietra. Ci resto male,
ma mi dico che forse è giusto così, non devo ricevere niente. Faccio qualche passo, e
capisco di aver fatto la parte del turista idiota. Ciò che le ho dato non vale niente.
Sono una manciata di rubli. Ci vogliono 40 rubli per fare un euro. Non le ho dato
niente! Ecco perché la fioraia sul marciapiede aveva rifiutato le mie monete, voleva
solo soldi di carta...
San Pietroburgo è una moderna metropoli, niente a che vedere con quello che ho
vissuto nel ‘93. Disperati non rubano più i tergicristalli delle auto in sosta. Igor quando
lasciavamo la sua Opel, li staccava e se li metteva in borsa. L'acqua del rubinetto non è
più marrone. Io non mi lavo più i denti con l'aranciata. Era l'unico liquido che trovavo
nelle botteghe, non c'era acqua minerale. La notte è sicura, si può passeggiare senza
pericolo anche da soli. I giovani ridono, vestono allegro, e si baciano lambiti dal fiume
del turismo con flash.
Inserisco nel telefonino la sim russa per non spendere un patrimonio e provo a
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11. chiamare Katia. L'ultima volta che ci siamo sentiti e visti è stato a Grenoble nove anni
fa. Lei doveva tenere in Francia alcune conferenze sull'arte russa.
Mi risponde. È sul Volga con un gruppo di turisti, la motonave li porta da San
Pietroburgo a Mosca. Tornerà sabato, sarà bello rivedersi. Sabato è tornata.
Ma ho preferito non incontrarla. Le ho fatto una lunghissima telefonata
dall'aeroporto, in attesa del volo. Ha una bambina di sette anni. Vive con lei
nell'appartamento dove visionavamo il girato. L'arredamento è tutto nuovo, molto
bello. I genitori sono in una dacia a 50 chilometri fuori città. D'estate la bambina è con
loro, mentre Katia si sbatte come guida turistica per metter da parte più soldi
possibile. Con le notti bianche fa anche giri turistici notturni in bus.
Una vita a due tempi, lei dice. Nel periodo scolastico con la bambina nella vecchia
casa. Il rapporto con il papà della bambina non ha funzionato, si sono lasciati due anni
fa.
Ne ha avuti parecchi di amori, ma adesso basta. Vorrebbe attivare un bed and
breakfast ma occorrono tanti soldi. Si doveva fare dieci anni fa, allora le case
costavano niente. La capisco, da sola deve farcela nel duro campo di battaglia dove il
denaro è la misura di tutto. E sorridiamo insieme sulla magia della lenta nevicata. Nel
silenzio dello Smolny mentre il tempo scivola via.
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